Si sono concluse le selezioni della 1.a edizione del concorso RI_Scritture Giovani lanciato dal Triestebookfest e dal PAG_Progetto Area Giovani del Comune di Trieste. Gli 8 talenti under 19 verranno premiati alle 19.30 del 9 agosto nell’ambito dell’evento “PORTO GIOVANE” inserito nel programma di Trieste Estate Giovani nella splendida cornice del Porto Vecchio_Centrale Idrodinamica!
Di seguito non solo i VINCITORI ma anche le idee che sono state premiate nelle tre sezioni del concorso!
Che cosa succede ora? Come indicato nel bando, le idee (o i testi nel caso della sezione musica) verranno rielaborati e riadattati per essere presentati in occasione della terza edizione del Triestebookfest i prossimi 19 – 20 – 21 ottobre. Il Progetto Area Giovani chiama quindi a raccolta tutti gli accreditati al PAG per 2 testi da musicare ed eseguire, la realizzazione di 3 video e la messa in scena di 3 pièces teatrali (della durata massima di 5 minuti).
Info per questa nuova fase del progetto susan.petri@comune.trieste.it
SEZIONE MUSICA
LEGGI CORREGGI di MARKO ZIVANOVIC
So di non essere cresciuto
Con l’amore materno
Per questo ho sofferto le pene d’inferno
D’amore non me ne intendo
Però dall’alcol dipendo
L’amicizia che un tempo era sacra
Ora negli incubi mi massacra
L’unica soddisfazione che per altri può sembrare una punizione
E’ la consumazione
Dell’inchiostro
Sulla carta bianca
Guarda che l’immaginazione non mi manca
Scrivo questo su una panca
La dislessia non mi porterà via
Ogni volta che devo leggere
C’è qualcuno che mi deve correggere
Lo vorrei sommergere di parole, fantasia
Che la dislessia non mi porterà via
La mia lettura ha una lenta andatura
Che mi provoca insoddisfazione
Forse questa è la mia punizione
Devi saper pensare, scrivere, cantare, per rappare
Tu non lo potresti fare
Lo puoi solo sognare
Con ogni rima alzo di più la mia autostima
Prima o poi arriverò in cima
Là dove il cielo confina
Prima o poi schiaccerò una mina
LIBRI ADORATI di MELINDA YUSIFI
RIT. I libri sono gialli, verdi e blu, a me non importa basti solo tu.
Un po’ di ketchup e maionese e fai il panino alla francese
con un pizzico di libri sento il sapore della libertà.
I libri son leggenda grazie ai nostri antenati
che han creato libri sottili, grossi e molto amati.
RIT. Prendo il libro preferito e me lo macchian con il dito, m’infilo le infradito m’arrabbio
e scateno gli involtini primavera.
I libri son pigri ma io ancor di più
sicuramente non mi alzo dal letto per aprirlo e sfogliarlo.
RIT. I libri son pigri, perché non si aprono da soli
se non fanno il primo passo per venire da me, allora rimando al prossimo anno.
I libri e la Nutella sembrano uguali, però no, la Nutella ha sapor di bontà, invece i libri di libertà.
RIT. I libri per piccini contengon unicorni, pulcini
ed un posto per far i “pastroccini”.
Senza libri cosa si cucinerebbe, i bimbi voglion lasagne e tacchino che vedi correr per strada.
RIT. Se mi sentissi acida, prenderei un libro, lo immergerei nello zucchero e voilà, il gioco è fatto!
Fragola, limone, cioccolato ogni libro assomiglia ad un frutto o a una verdura.
RIT. I libri son tanti, il cemento pure
con tutti questi libri si potrebbe fare il basamento
di un grattacielo,
sono alti, bassi e pieni di vetro, poi viene Pietro che misura il grattacielo col libro-metro.
RIT. Io ti dò il buongiorno con il libro dell’unicorno,
più bello è il risveglio, più bella è la giornata e vengo abbracciata dalla camminata che dopo faro’ con un libro in mano.
RIT. Quando mi sveglio dò tutto il mio meglio, leggo, leggo, leggo e proteggo
il libro dalle macchie e le pernacchie del nipote.
RIT. Mentre leggo il libro vado in negozio e compro un reggilibro per pigrizia,
ma poi succede che lo perdo e per paura chiamo la polizia,
mi prendono in giro e faccio quattro salti in libreria.
SEZIONE TEATRO
LA FORTEZZA di RUBEN ROSSI
Milton è un negozio triestino di libri usati del centro storico, arroccato ancora stancamente in una via ormai assediata dalla gentrificazione. Clara, la proprietaria di Milton è una donna in odore di anzianità. Ha con sé Aiace, suo assistente e amico, anch’egli abbastanza lontano dal fiore degli anni che per lo più la aiuta nello sgombero delle soffitte e nei lavori pesanti. Ogni tanto le dà una mano anche a catalogare. Le lunghe giornate trascorrono in lunghi e distratti dialoghi tra i due, che, come in una sorta di flusso di coscienza condiviso e dialogico, si espande da accenni di discorsi sulla letteratura alla politica, alla contemporaneità e alla città, in un continuum ininterrotto. Ovviamente, mentre i due discutono lavorano, occupandosi delle faccende della libreria.
I dialoghi si intrecciano, gli attori si parlano sopra molto spesso.
I discorsi dei due sono serrati, composti da brevi frasi fulminanti, colmi di frasi di circostanza e brevi incisi proverbiali.
Dal commento su di un libro recentemente messo in catalogo si arriva a << no xe più le meze stagioni>> e da una fugace analisi socioeconomica si passa a <<quanto iera bel de zovine Mastroiani >>. Ciò che più piace fare a Clara in negozio è indovinare la personalità e la professione dei proprietari delle grandi cataste di libri che il negozio di volta in volta libera a buon prezzo da polverose cantine. Si diverte spesso in questo gioco con Aiace, che conferma o confuta le sue intuizioni, aiutata dal fatto che è Aiace a gestire i contatti esterni e gli effettivi sgomberi e non lei, ormai da molto tempo, affaticata dall’età.
Se capta abbondanza di testi accademici, indovina si tratti di un professore universitario, magari anziano e recentemente defunto. Se particolarmente ispirata, va anche a cercare i necrologi per sapere se lo conosce (e se addirittura ha azzeccato la persona). Trovando invece una copiosa quantità di Adelphi o Sellerio suggerisce la presunzione, la spocchia del proprietario. Secondo questo procedimento holmesiano deduce la paternità di tutte le sue collezioni, che non mischia mai. Se indovina il padre (o la madre) dei libri, si approccia al suo gruppo di libri in funzione della personalità.
Invece, se non indovina, non vuole mai sapere da Aiace chi sia il collezionista, e piuttosto continua ad arrovellarsi, tentando elaboratissime analisi, soffermandosi insistentemente sulla rilevanza di singoli libri, e rimugina le sue ipotesi per un gran lasso di tempo. Periodicamente ritenta una via e chiede ad Aiace se stavolta ha azzeccato (nel frattempo probabilmente Aiace se ne è pure dimenticato); ciò può provocare in lei frustrazione o grande appagamento, a seconda della risposta di Aiace (risposta che però Clara sospetta essere spesso falsata per accontentare le sue ipotesi e placare le sue asprezze di carattere). Le cataste sono per lei come sue figliole.
Queste collezioni sono però, a suo dire, perennemente esposte alle cicliche predazioni dei numerosi bibliomani che assediano la libreria. Costoro sono personaggi pittoreschi, spesso con alle spalle storie tormentate.I bibliomani fiutano ogni nuova acquisizione e fanno a gara per chi per primo la raggiunge; conoscono a menadito ogni singolo angolo, ogni titolo di ogni libreria tergestina. C’è Arnoldo, il collezionista compulsivo che compra all’ingrosso, solo per riempire di carta la sua casa già stracolma.
Giuseppe, ossessionato dai libretti d’opera d’epoca, che pur ripetutamente trovando magre soddisfazioni ai suoi appetiti, non desiste dalla sua faustiana ricerca.
Altra assidua frequentatrice è Emilia, che invece mira alle grandi serie di volumi: i cicli titanici e preziosi di enciclopedie la attraggono particolarmente, assieme alle “collezioni dei più grandi artisti di tutti i tempi” e ai volumi (più imponenti possibile) di storia naturale in serie.
Clara non vede tanto di buon occhio queste figure, che per lei sono avvoltoi delle collezioni che ritiene sue. Sue e basta. Deve proteggerle da loro. A questo scopo, costruisce lo spazio con grande consapevolezza architettonica, in modo da isolare e “fortificare” le collezioni personali perché rimangano intatte, organiche. Le collezioni sono disposte come se fossero dei castelli difensivi, eretti per impedire che anche solo un singolo libro sia comprato, <<depredato>> a suo dire, e il suo furto mini l’organicità perfettamente completa della collezione che ha acquistato.
D’altronde, si può dire che queste collezioni vengano da lei comprate o per sé, o per proteggerle dalla dispersione, non certo per rivenderle. Sono come piccole casematte.
Clara passa la maggior parte delle sue giornate a costruire queste architetture. È schiava e padrona della sua libreria, in cui a volte queste fortezze sembrano quasi gabbie. Certo la realizzazione scenica, sotto questo aspetto, è piuttosto complessa. Le complessità potrebbero essere risolte tentando soluzioni astratte, in cui le gabbie-fortezze di libri sono formalizzate in parallelepipedi che si protendono verticalmente, con le pareti fatte da mattoni di libri e aperte soltanto in direzione del pubblico. Queste strutture, dislocate l’una dall’altra, potrebbero ricordare delle cabine telefoniche, dei grattacieli schematizzati. I parallelepipedi di libri potrebbero essere forniti di lampadine accese al loro interno ( che facilmente ricordano gli ambienti
precari e polverosi di alcune antiche librerie dell’usato), appese con ingarbugliati reticoli di fili.
Se si realizzasse una scena spoglia, nera, le luci interne ai parallelepipedi farebbero contrasto col buio dell’ambiente che le circonda, realizzando con semplici mezzi una soluzione comunemente usata, ma pur sempre di un certo effetto.
Le sue collezioni, come la stessa esistenza della libreria, sono però seriamente messe in pericolo quando chiude la barbieria accanto a lei. In quella strada frequentata spesso di notte dai giovani, la barbieria era l’ultimo residuo (assieme alla libreria) ancora in piedi di un negozio che non fosse un bar, uno straccio di vivere quotidiano ancora non gentrificato.
Dopo questa chiusura, un giovane imprenditore spregiudicato, il signor Bezzi, le propone di vendere l’esercizio per far posto ad un locale in cui si balla. Per far spazio al locale la libreria infatti si andrebbe a fondere con il barbiere, nel progetto di rompere il muro che separa i due negozi. Tenta di convincerla suggerendo cifre notevoli e facendo leva sull’ anacronistica e insensata presenza di una libreria in quella zona.
I due si incontrano, ogni volta che lo fanno, nel bar di fronte a Milton: Bezzi si dichiara insofferente ad entrare nella libreria, sporca e scomoda per una discussione professionale ( la scena qui potrebbe cambiare, spostandosi all’esterno). Clara, concesso a Bezzi un po’ di tempo per pensare, si dimostra però, a livello progressivo, sempre più risoluta a non voler cedere. Lo scontro diventa morale e generazionale, e permette a Clara una rilevante presa di coscienza.
La donna non solo decide di non vendere, ma si apre anzi, ora con affetto agli usuali frequentatori. Non disdegna le loro richieste, ma piano piano comincia persino ad assecondare la loro ricerca. Scegliendo di proseguire, per Clara la biblioteca e i libri da fortezza interiore diventano roccaforte di resistenza attiva. Bezzi è costretto ad indietreggiare.
Il suo agire che prima era meccanico e rituale è ora rivolto ad una promozione attiva e partecipata del libro: non solo rifiuta la Proposta di Bezzi, ma comincia ad attirare l’ attenzione sulla sua libreria. Ripittura la scritta con colori sgargianti, regala copie omaggio di titoli ricercati a tutti i proprietari dei bar che la attorniano e rivendica con fierezza la natura antica, polverosa, ma ancora potente, della libreria. Apre così una guerra non alla modernità, ma all’indifferenza dannosa e cieca. E, tutto sommato, con pervicacia riesce a vincere: qualcuno dei molti che passano di lì per trascorrere una serata in compagnia ora si ferma a guardare. Magari addirittura torna la mattina dopo, magari chiama qualche amico.
La fortezza non è solo la storia di uno scontro generazionale, ma la fotografia dei sotterranei rivolgimenti sociali e culturali, e l’analisi e il capovolgimento di modelli archetipici ( la vecchia libraia-bibliotecaria, il garzone, i bibliomani, il giovane imprenditore senza scrupoli) che si possono riscattare dal loro ruolo macchiettistico, (ad eccezione di Bezzi), solo per mezzo del loro sforzo vitale per dar nuova linfa alla cultura e del loro tentativo di una conciliazione faticosa tra due mondi. E la conciliazione tra il mondo antico barricato nelle sue certezze e quello nuovo, invadente, avviene grazie ai libri.
TRA LE PAGINE DI QUALCHE LIBRO di ALICE CASTAGNA
Nel grembo della mamma mi facevo piccola piccola e ascoltavo.
Cantava, parlava, ballava, ma soprattutto faceva un’attività di rilassamento che a me piaceva moltissimo: leggeva. Ed io rapivo ogni lettera di quel meraviglioso quadro.
Quella volta, sì me la ricordo, ero una bambina solare e curiosa. Mi piaceva giocare con tutto e con tutti, perfino con le piante.
Puntualmente ci parlavo e le abbracciavo, erano un po’ parte di me. Credevo mi potessero sussurrare i segreti della vita, ma anni dopo capii che solo l’esperienza poteva darmi le riposte che cercavo.
Ma la cosa che amavo di più era leggere, sapere. Mi nutrivo di parole, di frasi profonde, di argomenti pungenti.
Mi recavo nella biblioteca più vicina e prendevo in prestito una decina di libri, poi andavo nella camera dei miei genitori, mi accomodavo sulla grande poltrona variopinta e mi immergevo nella lettura, sfogliandoli, a volte, anche senza capire il loro contenuto.
Fantastico, era un mondo fantastico, sicuramente più piacevole di quello reale.
Nei miei libri c’era sempre pace, tranquillità, talvolta qualche avventura che creava subbuglio, ma poi tutto tornava calmo e placido. Nei miei libri, inoltre, c’erano i colori, cosa che nelle strade che percorrevo ogni giorno per andare a scuola non c’era, il che rendeva il tutto molto triste e spento. Questi colori dipingevano i palazzi, i giardini, le persone, ma soprattutto i loro cuori che col tempo si erano raggrinziti, perché non gli era stata data l’acqua.
Non ho mai smesso di leggere, però, quando crebbi un po’, incappai in un mondo alquanto pericoloso: Internet.
Su questa rete iniziai ad informarmi un po’ su tutto quello che la mia fervida testolina ingenua si domandava, senza rendermi conto che, piano piano, stavo perdendo il totale controllo.
Era un pomeriggio, avrò avuto più o meno tredici anni, ero sola a casa, sola, grassa e con un computer.
Dopo l’ennesima abbuffata decisi che era arrivata l’ora di dare una svolta a tutto quello che riguardava il mio fisico e l’alimentazione e così feci la ricerca su Internet, che cambiò per sempre la mia vita: – come diventare anoressiche -.
Lessi tutto quello che c’era da sapere, ma soprattutto la lettera di Ana, quella che poi diventò la mia migliore amica, insieme a Mia.
All’inizio presi tutto come una sfida, un gioco, non credevo che delle parole avrebbero potuto condizionarmi fino a non mangiare.
Col tempo però cambiai, i libri che leggevo si erano fatti cupi, parlavano solo di cibo e di ossa. Anzi, col tempo smisi proprio di leggere, non avevo più le forze né fisiche, né mentali.
Arrivò un giorno in cui capitai in un vortice, dal quale feci un’enorme fatica a riemergere: un gruppo whatsapp pro Ana.
Ce ne sono tanti sul web, e bisognerebbe stare molto attenti, perché è facile ritrovarsi dentro a queste sette mangia vita. Venivo risucchiata senza avere il tempo di capirlo davvero. Leggevo, leggevo interi messaggi di diete che avrebbero dovuto cambiare il mio corpo e farmi scomparire.
E non solo leggevo ma anche guardavo, osservavo le centinaia di foto di ragazze e ragazzi che stavano morendo e non se ne rendevano conto. Ed io ero fra quelli. Le lettere a volte ballavano, danzavano quando le osservavo attentamente.
Si confondevano sul foglio bianco e i miei occhi fibrillavano una luce curiosa. Col tempo oltre all’anoressia mi diagnosticarono anche la dislessia. Avevo ormai venticinque anni e mi ero appena laureata in pedagogia.
Ma non ebbi tempo di darci peso e piangerci su, lo vidi più come un dono, perchè oltre a leggere io potevo anche danzare.
E col tempo diedi l’opportunità di vedere con i miei stessi occhi ad altre mille persone che, mentre assorbivano pagine su pagine, il succo della storia veniva accompagnato da una certa melodia, a volte allegra, altre volte triste.
Entrai a far parte di un progetto nelle scuole per l’infanzia e portai avanti la mia visione delle cose, della scrittura, della lettura.
Ci mettevamo in cerchio, ogni bambino sceglieva il libro che più gli piaceva, poi accendevo lo stereo e mettevo una musica che variava a seconda del loro umore.
Nel mio percorso trovai altri bambini, ragazzi, adulti che soffrivano di dislessia e insieme alle melodie si aggiunse l’arte, anche queste altre persone avevano il loro modo di leggere. Perché se io dipingo un quadro tu non riuscirai mai a dare la stessa interpretazione che gli dò io. E così feci in modo di donare dei ricordi alle persone anche più povere di sentimenti, e vi assicuro che erano e sono dei ricordi meravigliosi che oggi danno a tanti la forza di andare avanti.
Grazie ad un libro.
Grazie all’amore.
STORIA DI UN LIBRO di TERESA MARIA MARTINA DE RADIO
In principio, era tutto buio. Io e altri migliaia di miei compagni stavamo messi tutti in riga, come piccoli soldatini, mentre una soffice peluria grigia si posava lenta su di noi, rendendoci incredibilmente vecchi.
C’era chi era fermo in una posa leggermente obliqua, da così tanti anni da non ricordarsi neanche quanto tempo fosse davvero passato.
Stavamo tutti aspettando una mano più o meno gentile che si tendesse verso di noi per portarci via, magari in una casa calda, davanti al fuoco di un camino, su una poltrona.
Ripensai al viaggio che avevo fatto. Venivo da lontano io, dalla lontana America. Non ricordo nemmeno quale fosse la mia città d’origine, penso però che fosse New York, la Grande Mela.
Ricordo di un parco in cui restavo seduto ore e ore su una panchina, un po’ dimenticato, un po’ infreddolito per il vento che mi soffiava addosso.
Ho chiuso gli occhi, improvvisamente mi sono trovato immerso in un buio galleggiante dal forte odore salmastro.
Mi scaricarono a terra, e capii di essere arrivato in Inghilterra.
Ho avuto modo di confrontarmi con altri compagni durante il viaggio, ma mi assomigliavano tutti un po’ troppo ed erano così tremendamente impauriti da non sapermi aiutare; ma, in quell’enorme magazzino in cui ci avevano stipati all’arrivo, ho incontrato altri sfortunati avventurieri molto diversi da me.
Parlavano lingue strane, oppure simili alla mia, anche se con accenti e cadenze diverse. Per fortuna da loro capii quel minimo per sapere l’anno, che ora ho dimenticato.
Restai in Inghilterra diversi mesi: la mattina seduto in giro per le librerie della città e la sera stipato in puzzolenti magazzini, con tanta umidità da riempire i muri di muffa.
Qui conobbi diverse persone buone, che mi offrivano una carezza o una sfogliatina, ma fui anche testimone di violenze subite dai miei compagni. Ricordi che, a pensarci, mi fanno ancora rabbrividire: alcuni erano stati buttati a terra, altri dimenticati in giro per la città, in balìa di venti forti che li strappavano, di cani rabbiosi che li azzannavano e di incessanti piogge che li inzuppavano fino a farli sbiadire.
Una sera, diversi di noi furono caricati su un furgone e poi trasportati su un aereo. Eravamo circa un centinaio, fra quelli che venivano dall’America.
Il volo fu relativamente breve, ma venivamo sbattuti da una parte all’altra dell’aereo, fino ad atterrare in una città che profumava di pane ma anche di esplosioni, di graffiti e di sobborghi inquinati. Mi dissero che era Parigi, in Francia.
Qui la vita era bellissima, dormivamo tutti insieme in una stanza grandissima, piena di scaffali e tappeti in terra. C’era addirittura una poltrona vicino alla finestra e un signore ogni giorno veniva a sedersi lì, battendo al computer qualcosa e borbottando fra sé e sé.
Restammo lì uno o due mesi, poi affrontammo un lungo e noioso viaggio in treno, nel quale una voce continuava costantemente a scusarsi per il ritardo. Era così fastidioso che cercai di dormire per il maggior tempo possibile.
Arrivammo in Italia di notte, in una città di mare che sembrava mozzafiato. E affacciandomi dal treno vidi uno spettacolo che mi fece perdutamente innamorare di quella che poi fu la mia città: Trieste.
Piccola ma apparentemente infinita, affacciata su un mare che rifletteva migliaia e migliaia di luci come uno specchio perfetto, vagamente distorto e abbracciata da un paio di verdi e forti braccia, Trieste appariva come una piccola parte di perfezione, vista da lontano.
Era una città che trasudava Storia, quella vera e importante, da tutti gli edifici, partendo da quelli antichi e romani a quelli più o meno moderni.
Finalmente mi assegnarono un posto fisso dove restare per sempre.
Era lo scaffale di una biblioteca pubblica, che io e mille altri libri come me avevamo l’onore di riempire per la prima volta. I primi tempi, mani di ragazzi e adulti passavano sulla mia copertina, scegliendomi dallo scaffale e portandomi nelle loro case.
C’era chi mi portava a casa e poi si dimenticava della mia esistenza o chi mi piegava gli angoli delle pagine, creando dolorose “orecchie d’ asino”. C’erano addirittura persone che mi macchiavano di caffè lasciando un’impronta indelebile sulle mie povere pagine.
Ma ebbi la fortuna di incontrare anche persone buone che amavano i libri.
Queste persone mi portavano a casa, mi mettevano ordinatamente sul comò vicino alla lampada e ogni notte sfogliavano le mie pagine, immergendosi in una lettura a volte dolce e fluida, a volte difficile.
Io personalmente adoravo quando a tenermi in mano erano i giovani, pieni di emozioni che, leggendo fra le mie righe, lasciavano cadere qualche lacrima. Quelle impronte mi piacevano perché mi facevano sentire importante.
Un giorno, un uomo mi portò a casa e mi tenne sulla poltrona accanto al letto della figlia adolescente, gravemente malata. Ogni sera le leggeva un mio capitolo, e ogni sera pregavo che magicamente il numero delle mie pagine aumentasse e con esso il numero dei suoi giorni.
Con il tempo, il mio scaffale, che al mio arrivo era nuovo e lucido, diventò consumato e impolverato. Alcuni dei miei compagni erano rimasti lì, caduti leggermente in una posa obliqua, altri non c’erano più.
La nostra biblioteca fu sempre meno frequentata fino ad essere praticamente vuota.
E noi rimanemmo lì mentre lentamente nevicava su di noi la polvere grigia. Per risparmiare, le luci vennero lentamente sostituite con lampadine gialle a basso consumo, e quello scaffale diventò quasi buio.
Tempo dopo, una mano rugosa, vecchia e incartapecorita ci aveva accarezzato, scosso dalla polvere e riposto in una scatola, portandoci a casa.
Ci aveva posizionati dolcemente su un comò, vicino ad una sedia a dondolo dove venivamo letti, in leggero dondolio.
Ora, non sono che un vecchio libro, macchiato di gocce di caffè senza più odore, impronte di lacrime silenziose e custode di silenzi e sentimenti di persone diverse fra loro.
Ho le pagine ingiallite, e le parole forse un po’ sbiadite, ma, di storie, ne ho ancora di raccontare. E potranno togliermi questa casa, potranno togliermi le dolci vecchie mani ad accarezzarmi, potranno smarrirmi in un parco o dimenticarmi in un armadio di scuola.
Ma nessuno potrà mai negarmi il diritto di essere sfogliato, di appassionare qualche ragazzo alla mia lettura e portarlo lontano in un mondo immaginario che solo le mie pagine possono evocare.
Nessuno potrà mai togliermi il diritto di raccontare, che sia una, che siano mille storie, a chi saprà davvero ascoltare e leggere con il cuore.
SEZIONE CINEMA
IL CUSTODE di JAKOB GRUDEN
Camminavo per i vialetti pavimentati della città, da poco era iniziato a nevicare. La neve soffice e qualche fascio di sole trasformavano i viali in un dipinto. Imboccai un’altra via e mi ritrovai accanto al fiume che divideva la città. Lungo la sponda c’erano vari ristoranti e negozi, sopra di essi si ergevano le grandi finestre degli appartamenti.
Mi dirigevo verso la biblioteca di mio nonno che desiderava che lo aiutassi in alcune faccende. La città era nuova per me e ci misi un po’ a orientarmi. Arrivai fino a un palazzo alto e circolare. L’edificio era di pietra bianca, i due alberi davanti all’entrata avevano la corteccia bianca e foglie di un colore rosso acceso. Oltre le finestre si intravedeva qualche scaffale di libri. Sull’entrata, una grande porta di legno scuro, un cartello d’ottone annunciava: “La Biblioteca dell’Infinito”, e più in basso: “Ai cercatori di storie irreali ma reali: un nuovo mondo attraverso questa porta apparirà.”
Varcai la soglia e mi girai intorno. La stanza ampia e circolare somigliava a un salotto con diverse poltroncine e tavolini di legno. Dall’altra parte della stanza c’era un bancone di mogano. Su di esso era appoggiato un vecchio cofano, qualche strano aggeggio e ovviamente dei libri. Un po’ più in là c’era un maestoso focolare che inondava la stanza di calore. Dalle finestre si godeva la vista sulla città, oramai tutta innevata.
Era la più bella libreria che avessi mai visto, da essa straripava la voglia di leggere ore e ore. Ma eravamo solamente al primo piano: una scala circolare d’acciaio nero e poggiamano d’oro portava ai piani superiori.
Presi un grosso libro che sembrava molto antico e lo aprii. La rilegatura era fragile e feci molta attenzione. Il libro catturò il mio interesse, ma subito una voce profonda e velata mi interruppe: “E’ una lettura interessante, narra la storia di questa libreria, un vero enigma. Come va la vita, nipotino mio? Sei cresciuto parecchio, è un secolo che non ti vedo.”
Un omino basso mi si parò davanti. I capelli rossicci si intrecciavano con la lunga barba che sfiorava il pavimento. Il volto era pieno di rughe, ma sembrava giovane. Gli occhi azzurri come limpide acque tropicali nascondevano il cervello di una volpe.
“Tutto bene, grazie, mi fa molto piacere rivederti!” lo salutai, felice. “Questa libreria è spettacolare, sembra quasi innaturale.”
“Sono felice che ti piaccia, dopotutto dovrai lavorare qui. Ma non ho molto tempo a disposizione e ho cose importanti da dirti” disse tutto d’un fiato. “Caro Jason, come hai intuito, questa non è una libreria come le altre, ma molto di più. Qui puoi trovare tutto quello che cerchi, anche le risposte ai più svariati enigmi della vita, lo spirito dei grandi scrittori. Pochi capiscono l’importanza della libreria, non la vedono com’è in realtà. Tu la vedi come la vedo io, ed è quello che speravo, visto che sei mio nipote. Ho visto lo scintillio dei tuoi occhi e ho capito che daresti tutto per ispezionare la libreria, angolo per angolo.”
Salimmo poi le scale e ci trovammo nel piano superiore che era molto più grande. I confini delle pareti si vedevano a malapena, fatto piuttosto strano: visto dal di fuori, il palazzo non poteva essere così grande. Salimmo all’ultimo piano. La stanza circolare sembrava senza fine. Era piena di libri di colori caldi e invitanti, la luce veniva dal soffitto di vetri e dalle lampade dorate che si ergevano nel nulla.
“Ora ti sto affidando la tutela di questa libreria, so che sei adatto a questo importantissimo lavoro da custode. Sento che il tuo amore per i libri e la voglia di sapere sono infiniti. Devi promettermi però che resterai”, disse il bizzarro nonno.
“Sì, certo… però non capisco…”, balbettai. “Io devo lasciare la biblioteca, un’altra mi attende, lontano da qui. Ormai ho svolto il mio lavoro, menti giovani e vecchi libri hanno bisogno di me. Questa biblioteca è affidata ora a te. Non ho tempo per altre spiegazioni, è tutto scritto in questo libro.” Mi mostrò un manoscritto aperto, posto su un leggio di marmo.
“Ma non credo di essere così speciale…”, lo interruppi.
“Lo sei, e come… Nelle tue vene scorre il mio stesso sangue. L’amore che nutri per i libri è una cosa importantissima. Verrai ricompensato da ricchezze, ma soprattutto di sapere. Oggi non ci accorgiamo dell’importanza dei libri, che sono come degli amici sempre a nostra disposizione e sempre pronti a farci raggiungere i regni della più sfrenata fantasia”.
Sorrise misteriosamente e sfiorò con l’indice il libro aperto. Poi con uno schiocco si dissolse nel nulla e al suo posto comparve una nuvola rossastra.
Lessi le prime righe del libro: “Il misterioso vecchietto con la barba rossiccia che sfiorava il pavimento, bagnato di pensieri irrisolti, osservava la vecchia libreria chiusa ormai da anni.”
LIB(E)RI di JAKOB SANCIN
Luogo: scuola, biblioteca
Personaggi: Una giovane ragazza di 16/17 anni, grande lettrice di libri.
La storia parla di una ragazza che legge sempre e dappertutto. Per questo motivo viene spesso bullizzata dai compagni, che nei corridoi la urtano apposta per farle cadere tutti i libri dalle mani, e derisa dalle sue compagne, perché legge sempre e non ha un ragazzo. Dopo scuola, la ragazza va sempre in biblioteca a leggere.
Prende un libro, si siede a un tavolo ed inizia la lettura. Lei però non legge soltanto; leggendo viaggia, pur rimanendo sempre seduta in biblioteca.
Un giorno si ritrova seduta per terra su un molo, con gabbiani che le volano sopra la testa e marinai intorno a lei che gridano. Si trova a New Bedford, ai tempi del capitano Achab, pronto a salpare con il Pequod per catturare Moby Dick. Un altro giorno si ritrova seduta su un ceppo nel mezzo di un bosco. Una freccia le passa proprio davanti agli occhi e centra il bersaglio. Ora si trova nella foresta di Sherwood, con Robin Hood e i suoi compagni che praticano il tiro con l’arco. Un giorno piovoso invece, la ragazza è nella biblioteca a leggere e si ritrova in mezzo a una stradina buia e nebbiosa. Un uomo con una pipa in mano e uno strano cappello le passa davanti. La ragazza va a vedere in che via si trova e legge “Baker Street”; ora si trova a Londra, con il detective Sherlock Holmes.
Proprio in quel momento un ragazzo interrompe la lettura della ragazza dicendole che quello è il suo libro preferito. I due iniziano a parlare e tra di loro nasce subito una grande amicizia dettata dall’amore comune per i libri. La ragazza trova
finalmente qualcuno con la sua stessa passione ed è felice perché non sta più viaggiando con la mente ma è tutto reale.
LIBRO DI UNA VITA di VALENTINA VISINTINI e MARIA VITTORIA FORTINI
Personaggi: Bambina di 6 anni, Ragazza di 16 anni, adulta di 36, anziana di 76, nipotino di 6 anni.
Una bambina entra nella sua casa nuova ancora tutta piena di scatoloni, sale le scale per arrivare al secondo piano con una palla in mano, inciampando sull’ultimo gradino fa cadere la palla che rotola davanti ad una porta socchiusa, incuriosita entra, trova la soffitta tutta in legno con qualche scatolone tutto impolverato e una grande finestra circolare da cui si intravede qualche albero, entrando vede un libro a terra, si avvicina e comincia a leggerlo. Il libro racconta della storia di due giovani innamorati, la bambina arrivata alla fine del libro in cui i due fidanzati si baciano, imbarazzata, si copre gli occhi con le mani, chiude velocemente il libro che lascia per terra, nota che era già buio, riprende in mano la palla ed esce chiudendo la porta dietro di lei.
Passano degli anni, circa 10, si vede che la soffitta cambia, le stagioni che velocemente passano dalla finestra impolverata. La bambina ormai adolescente entra nella soffitta con uno scatolone in mano pieno di giochi, intravede qualcosa a terra, sposta gli scatoloni che negli anni si erano accumulati, vede un libro si siede e comincia a leggerlo, era molto presa da questa storia di due giovani innamorati, arriva alla fine del libro e con una faccia da sognatrice e romantica, nota che è buio, chiude il libro e se ne va.
Passano degli anni, circa 20, si vede che la soffitta cambia, le stagioni che velocemente passano dalla finestra impolverata. L’adolescente ormai adulta entra nella soffitta, per caso tirando un colpo alla porta con l’aspirapolvere entra e vede subito il libro a terra, si siede e inizia a leggerlo, si fa buio, è arrivata alla fine del libro, lo chiude sbattendolo a terra, quasi schifata dall’idea di questi due giovani che si baciano ed esce.
Passano degli anni, circa 40, si vede che la soffitta cambia, le stagioni che velocemente passano dalla finestra impolverata. Nella soffitta entra un’anziana, tutta di fretta, sposta gli scatoloni come se stesse cercando qualcosa, si ferma un attimo, si gira e lo vede lì per terra il libro, si appoggia ad uno scatolone e inizia a leggerlo, si fa buio e quando arriva alla fine, immaginando la scena dei due innamorati, fa scappare una lacrima che le accarezza il viso nostalgico fermandosi sulle labbra, lo chiude ed uscendo non lo lascia lì come al solito ma lo porta con sè, scende le scale, si vede la casa piena di scatoloni, arriva alla porta, si gira e si ferma a riguardare un’ultima volta quella porta socchiusa, si immagina tutte le volte che ci è stata, si rigira e in quel momento arriva un bambino che la prende per mano, la signora lo guarda e gli dà il libro in mano, riguardano la porta ed escono assieme.